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lunedì 25 giugno 2012

Considerazioni sulla guerra di libia, e sulla cosiddetta "primavera araba".

1. Ho recentemente aderito ad una manifestazione e ho firmato un appello per la richiesta di dimissioni di Napolitano, Berlusconi, La Russa e Frattini per violazione della Costituzione a causa del nostro intervento in Libia. So perfettamente che si tratta di un atto simbolico perfettamente inutile. Come ha scritto Brecht, “anche l’ira contro l’ingiustizia rende roca la voce”. Sarebbe facile insolentire l’unanimità guerresca che ha unito sinistra e destra, estrema sinistra ed estrema destra, ex comunisti ed ex fascisti (qui la coppia Napolitano/La Russa è assolutamente impagabile, per chi studiasse il cosiddetto “trasformismo” fuori dai libri di scuola). Cerco di non farmi sopraffare dall’indignazione e mi limito ad offrire qualche spunto per la riflessione.



2. Troppe cose non sono ancora note e si sapranno forse solo nei prossimi anni. Quanto è durata e quando è cominciata la preparazione dei servizi segreti francesi e inglesi in Cirenaica e nella zona berbera della Tripolitania? Quanto è contata la collaborazione fra la strega sionista Hillary Clinton ed il seppellitore del gaullismo Nicolas Sarkozy per spingere il (forse) riluttante Obama a dare il semaforo verde all’intervento armato? Come è stato possibile ingannare Russia e Cina all’ONU per dare via libera all’ipocrita no fly-zone, o quanto invece c’è stata sporca connivenza? Che nel caso ci fosse veramente stata, farebbe cadere tutte le speranze sul BRICS e sulla politica eurasiatista? Vorrei saperne di più, ed invece non lo so.

3. Dal momento che sono uno studioso esperto di storia della filosofia, non cesso di stupirmi per la facilità con cui la legittimazione della guerra è passata dalla dottrina della “guerra giusta” alla dottrina del cosiddetto “intervento umanitario”. Risparmio al lettore possibili dotte ricostruzioni di questa storia. Inizialmente, la guerra giusta era la guerra giustificata dalla necessità di esportare il cristianesimo, ed era pertanto una guerra di “crociata”. Poi la guerra giusta diventò la guerra in difesa della patria invasa (in latino pro aris et focis), ma è chiaro che in questo modo l’attacco preventivo può essere fatto ipocritamente passare per guerra di difesa.
L’apparente successo del pacifismo nell’ultimo cinquantennio non deve trarre in inganno. Esso è sempre stato una protesta contro lo “sterminismo nucleare”, per cui, se si poteva fare una guerra senza l’uso di bombe nucleari, la guerra era rilegittimata (Norberto Bobbio per Iraq 1991 e Jugoslavia 1999). I riti pecoreschi e ipocriti delle cosiddette Marce della Pace di Assisi sono sempre e solo stati cerimonie istituzionali, in cui al belare rituale si accompagnava sempre l’esecrazione per i dittatori e la possibilità di esportare i diritti umani.
Nella storia dell’umanità, è raro che si siano condotte guerre sulla base delle carte fornite dallo stato maggiore nemico. Invece gli ultimi trent’anni ci hanno fatto assistere a questo kafkiano paradosso. I pacifisti belavano richieste ritmate di sostituire alle armi i diritti umani, proprio quando gli stessi produttori di armi scrivevano sui loro missili “peace is our profession”, e i contingenti di invasori venivano ribattezzati “contingenti di pace”.
Tutto questo, ovviamente, è ampiamente noto. Bisogna però chiedersi, al di fuori di tutti gli identitarismi di partito o di schieramento, come sia stato possibile nell’arco di pochi decenni il passaggio della Grande Menzogna, dalla guerra giusta all’intervento umanitario, reso più facile anche dal passaggio dalla leva militare obbligatoria (che richiedeva motivazioni di manipolazione ideologica allargata) al mestiere di professionista delle armi (con donne comprese), che è compatibile con strategie ideologiche meno sofisticate (si pensi alla trasmissione di Sky-tv denominata Herat-Italia, senza dimenticare chi è Murdoch, il miliardario sionista padrone di Sky).

4. Secondo il modello mediatico pubblicitario americano, oggi le guerre vengono “vendute” alla cosiddetta “opinione pubblica” in forma personalizzata, attraverso la personalizzazione diabolica e demonizzante del “Sanguinario Dittatore”. Qui il copione si ripete. Nel 1999 il sanguinario dittatore era il serbo Milosevic (ribattezzato Hitlerovic in una oscena copertina de “l’Espresso”, la nave ammiraglia del gruppo Scalfari-De Benedetti), nel 2003 Saddam Hussein, ed ora nel 2011 il sanguinario dittatore è Gheddafi. Questo ritorno personalizzato del sanguinario dittatore deve far riflettere. Tutto questo è certamente legato al medium televisivo che richiede icone facilmente riconoscibili, ma non basta.
Il dittatore sanguinario è anche un’estrema metamorfosi degenerativa dell’immaginario antifascista della seconda guerra mondiale. L’immaginario antifascista partiva bensì dalla triade diabolica personalizzata dei tre grandi dittatori (nell’ordine di malvagità, Hitler, Mussolini e Franco), ma non si limitava certamente a quest’ultima, perché si aggiungeva il socialismo, il comunismo, la lotta al colonialismo, al razzismo, all’imperialismo, eccetera. Dopo la catastrofe del triennio 1989-1991 e la vittoria tennistica nei circoli universitari del paradigma del Totalitarismo di Hannah Arendt, tutti questi elementi sono stati spazzati via, ed è rimasto soltanto lo stereotipo del sanguinario dittatore, se possibile con le sue ville con i rubinetti d’oro e le vasche Jacuzzi rivestite di pelle umana.
Questo potrebbe in parte spiegare la totale resa della cultura di “sinistra” al modello del sanguinario dittatore. Perfino Samir Amin (Cfr. “il manifesto”, 31 agosto 2011), pur condannando l’intervento NATO e diagnosticando con precisione le ragioni “imperialistiche” della guerra di Libia, sente il bisogno di infierire sullo sconfitto qualificando Gheddafi come “buffone”. Sono contrario a infierire sul vinto, magari con motivazioni pseudo-marxiste. Non mi interessa correggere con la matita blu le ingenuità del Libro Verde o sanzionare gli indubbi elementi kitsch del suo comportamento. Gheddafi è stato ed è un grande patriota ed un combattente antimperialista, panarabo e panafricanista, mille volte superiore ai cani e ai porci che linciano i neri e che hanno vinto esclusivamente per i bombardamenti NATO.

5. La vergogna della cultura di sinistra a proposito della guerra di Libia è stata tale da essere quasi difficile da descrivere. Tutti si sono fatti babbionare dalla retorica sulla “primavera araba” sponsorizzata dall’emiro del Qatar e da Al Jazeera. Il fatto è che questa “cultura di sinistra” (esemplare è il giornale “il manifesto”, di cui “Liberazione” è soltanto una variante sindacalistica) è ormai soltanto una variante radicale dell’individualismo di sinistra post-sessantottino, indubbiamente post-borghese, ma anche e soprattutto ultra-capitalistica.
In questa vergogna si è particolarmente distinto il trotzkismo, in tutte le sue varianti, da Sinistra Critica al Partito Comunista dei Lavoratori (Ferrando) al Partito di Alternativa Comunista (Ricci). Tutti costoro hanno inneggiato alla stupenda rivolta delle masse libiche, che essendo però prive di un buon partito rivoluzionario trotzkista, hanno visto “scippata” la loro magnifica vittoria dall’intervento NATO.
Qui la coglionaggine dottrinaria ha celebrato in solitudine il suo massimo trionfo. I residui dogmatici del trotzkismo vogliono sempre una rivoluzione “pura”, anzi purissima, perché se non è pura è sempre bonapartista, burocratica, “campista” (Castro, Chavez, eccetera). Questi sventurati mi ricordano un frustrato che, non potendo sposare la donna più bella del mondo, la sola che avrebbe voluto sposare, si rinchiude in bagno a masturbarsi sognando questa Venere ideale. Miserabili! La NATO, i sionisti e gli USA massacrano un combattente antimperialista, e questi sciocchi inneggiano alla caduta del dittatore sanguinario!

6. Non ce l’ho assolutamente con Napolitano e gli ex PCI. Si sono riciclati bene, nel 1956 erano con l’URSS ed oggi nel 2011 sono con gli USA. Dal momento che non li ho mai stimati in precedenza, non mi hanno neppure deluso. I soli che hanno mantenuto un atteggiamento onesto sono stati i collaboratori de “l’Ernesto” (oggi Marx XXI), ma costoro sono gli stessi che per anti-berlusconismo vogliono allearsi con Bersani e Napolitano, cioè con i bombardatori della Libia. Lo spieghino ai loro militanti, e se riescono a farlo bisogna concludere che i loro militanti non sono militanti, ma militonti.
Il vero problema è quello di fare ipotesi sulle cosiddette “primavere arabe”. Come ha detto argutamente Zygmunt Bauman in una intervista a La Stampa, la cosa interessante sarà l’estate araba, perché la primavera è già passata. Per ora siamo nel campo delle ipotesi. Credo che in un certo senso il 2011 arabo sia, venti anni dopo, il corrispondente del 1991 sovietico. Il 1991 sovietico chiudeva il ciclo delle rivoluzioni comuniste novecentesche nel loro aspetto di rivoluzioni operaie e proletarie (burocraticamente degenerate o meno, questa è un’altra storia), attraverso una maestosa controrivoluzione restauratrice delle nuove classi medie cresciute all’interno dello stesso apparato formalmente “comunista”. Il 2011 arabo chiude il ciclo delle rivoluzioni nazionaliste arabe a partire dal 1945 (nasserismo egiziano, gheddafismo libico, baathismo iracheno e siriano, eccetera), in cui le nuove classi borghesi favorite dallo stesso dispotismo partitico-militare precedente si sono ora autonomizzate, e cercano un rapporto diretto e non militarmente mediato con la grande globalizzazione finanziaria capitalistica.

Mi sbaglio? Sono troppo pessimista? Il futuro ce lo dirà presto.
Costanzo Preve, sito Eurasia 

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