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martedì 30 luglio 2013

Fuga all' inferno ed altre storie- un brano 2

3. Fuga all’inferno e altre storie è indubbiamente un’opera letteraria e, io credo, di apprezzabile qualità. Ma si tratta di un’opera letteraria che insieme al più noto, istituzionale e utopico Libro verde7 costituisce il corpus del pensiero politico di Gheddafi. Il pastore del deserto – così talvolta si autodefinisce – parla di politica al suo popolo nella forma della favola, dell’apologo. I racconti hanno sempre un contenuto politico: si tratti dei problemi del potere e del difficile rapporto con le masse, dell’urbanesimo e del progresso, dell’alienazione della persona di fronte alla prepotenza della modernità. Il leader Gheddafi, come è versatile nell’abbigliamento, parla più di una lingua: quella asserverativa e utopica del Libro Verde, quella fluviale dei suoi discorsi e del suo sito (www.algathafi.org/akrad-fr.htm) e quella poetica di questi racconti, spesso drammatici, nei quali assume la semplicità di un nomade pastore del deserto. «Benedetta sia tu, oh carovana» esclama scaraventato dalle circostanze al cospetto di problemi ardui e terrificanti.
Tutto questo invita a sforzarsi di capire la personalità dell’autore: non sono frequenti i capi di stato che scrivano racconti e si concedano alla letteratura non per vanità salottiera. Dobbiamo partire dal dato di fatto che Gheddafi è un capo di stato a tutti gli effetti, sperimentato nelle avversità (oltre l’embargo, l’accusa di «stato canaglia» e anche un bombardamento Usa) e tra i più longevi (in durata credo lo batte solo Fidel Castro), ha trasformato la Libia in una nazione e governa senza alcun incarico ufficiale: è soltanto il leader, el quaid, ma qui il soltanto è più di un tutto. Ma proprio per questo diventa più stringente la domanda: perché scrive racconti? La risposta la si deve cercare nella personalità di Gheddafi, utopica e realista, capace di avere tutto il cinismo del potere e di soffrirne l’angoscia, al punto di scrivere che vorrebbe fuggire all’inferno, per essere più sereno, riposare dalle fatiche di quel vero inferno che si trova nell'aldiquà.
A chi voglia saperne di più raccomando la lettura di Gheddafi, una sfida dal deserto di Angelo Del Boca e anche Di fronte a Gheddafi di Luciana Anzalone 8. Del Boca dice a Gheddafi che dovrebbe essere deluso dall’accoglienza debole che il suo popolo ha riservato al Libro Verde. La risposta di Gheddafi è secca e di verità. «La sua interpretazione – dice – è corretta. Certamente, sono deluso. I principi contenuti nel Libro Verde sono, ovviamente, principi utopistici. Se però la mia gente li avesse adottati, oggi vivremmo in un mondo più felice, più verde. Ma è difficile, con la gente di oggi, conseguire tali risultati. Di conseguenza il nostro mondo è ancora, purtroppo, di colore nero». L’uomo è utopista e realista: nello stesso Libro verde nel quale esalta la democrazia attraverso il potere del popolo, poi scrive: «Questa è la vera democrazia dal punto di vista teorico; ma nella realtà, sono sempre i più forti che dominano, e la parte più forte nella società è quella che comanda».
Resistere alle delusioni è difficile, ma il leader di delusioni ne ha subite tante, e ha resistito, senza incagliarsi o asservirsi. Ha sostenuto movimenti radicali europei, forse assimilandoli alla tradizione anticolonialista, pensiamo all’Ira e ad altri movimenti, subendo l’accusa di essere sostenitore del terrorismo. Ha sostenuto, impegnando soldi e soldati, tutte le possibili unità arabe, ma sempre deluso dai fratelli arabi, tanto che oggi è in conflitto aperto con la Lega araba. Da tempo è impegnato per l’unità africana, con il sostegno forte, che non è mai venuto meno, di Mandela, ma anche qui con risultati precari. Ma nonostante tutte queste delusioni è ancora attivo e promuove iniziative dalle sue tende di guerriero nomade. Resistere alle delusioni non è da tutti: a me sembra segno di saggezza e di fedeltà ai propri ideali.
Se quest’uomo ha preso il potere, senza spargimento di sangue, a 27 anni e lo ha conservato per 36 anni, fino a oggi è anche perché ha cominciato a pensare e agire per la realizzazione del suo progetto fin da ragazzo, quando studiava nella scuola di Sebha, da dove la polizia di re Idriss lo cacciò perché già allora faceva agitazione politica. E perché poi, anche al potere, ha continuato a studiare, osservare, sforzarsi di capire, realizzando il miracolo di essere il leader indiscusso senza nessun potere formalizzato, ma senza esercitare gli arbitri di un tiranno. Se su un fronte Gheddafi ha avuto la mano dura è stato contro gli integralisti e i fondamentalisti (il primo mandato di cattura contro Bin Laden è di matrice libica), e di questo non possiamo non essergli grati. Certo non ci sono partiti di opposizione e neppure una stampa contraria. Non c’è la democrazia come la conosciamo in occidente, però le assemblee popolari contano e a Tripoli non hai affatto l’impressione di vivere in uno stato di polizia. Non c’è – diremmo noi – la libera stampa, ma sulle case e anche per strada c’è un pullulare di antenne paraboliche che consentono tutte le informazioni possibili. Vorrei aggiungere che nessun capo di stato ha avuto la sincerità e l’ardire di scrivere e pubblicare un testo in qualche modo avvicinabile a Fuga all’inferno. E aggiungo ancora il ritratto che ne ha fatto Guy Georgy, primo ambasciatore di Francia nella Jamhaiyyria, nel suo libro, Kadhafi, le berger des Syrtes: «In uno stile accorto e molto personale, egli maneggia con disinvoltura l’humour, il paradosso, il lato buffo, la riflessione e il dardo assassino. Se a volte gioca ad apparire ingenuo, lo fa per assestare meglio qualche verità ai suoi nemici: gli integralisti arabi, gli europei pusillanimi...». E aggiungo ancora qualche mia impressione avendolo incontrato e intervistato in una delle sue tende. È innanzitutto persona di molte letture, non solo del Corano, quasi sempre presente nei suoi discorsi, ma anche della letteratura occidentale. È un attento lettore di Rousseau e degli illuministi e ama Dickens. È particolarmente attento alla questione dell’ambiente e a quella della liberazione delle donne. Riporto qui la risposta a una mia domanda del dicembre del 1998: «Per quanto riguarda l’ambiente sono enormemente preoccupato per l’indifferenza con la quale il mondo procede verso la catastrofe ecologica. Il capitalismo va alla ricerca del profitto immediato e scava a tutti la terrà sotto i piedi. Grandissima è la responsabilità degli Usa per il buco dell’ozono. Io sono e mi dichiaro alleato di tutti i verdi alternativi. Per quanto concerne la donna dobbiamo dire chiaro e forte che il nostro è un mondo fatto dai maschi, per i maschi e dominato dai maschi. È il mondo che non ci piace e che vogliamo cambiare. La donna è oppressa in Oriente e anche in Occidente, dove, al massimo del buono, la si vuole mascolinizzare. Specialmente nel mondo moderno, capitalistico non si riconoscono alla donna le sue differenze (e quindi i suoi diritti) naturali per poi limitarne, di fatto, i diritti civili e sociali. L’ambiente e la donna sono le grandi questioni dell’avvenire, se vogliamo averne uno».
È un uomo seriamente impegnato, ma anche un grande attore, già nel modo di abbigliarsi a seconda delle occasioni e degli incontri. Il vestito tunica che indossava in occasione dell’incontro con Berlusconi era un capolavoro scenico: una grande tunica con sopra, a stampa, grandi ritratti dei protagonisti dell’indipendenza africana, Nelson Mandela in testa. In questo caso l’abito faceva il monaco, era già un messaggio chiaro.

4. Questi dodici racconti vanno letti con attenzione. Non solo per i continui riferimenti al Corano, ma anche perché questi riferimenti servono a dare forza alla polemica di Gheddafi contro la superstizione e soprattutto contro i fondamentalisti ai quali il leader non ha consentito di fare proseliti in Libia. Vanno letti con attenzione perché vi si ritrovano anche radici culturali occidentali, qualcuno parla di Nietzsche e Freud9, e perché l’autore, a suo modo, si batte su due fronti: contro l’alienazione della modernità capitalistica e insieme contro la superstizione, il fanatismo e il lasciar fare, il disimpegno.
Il primo di questi racconti – La città – è un violento atto di accusa, qualcuno può anche interpretarlo come anticapitalismo reazionario, luddista, ma è difficile contestare la verità della denunzia. È difficile contestare l’autore quanto scrive: «La città spintona, non dice, per piacere», oppure «Questa è la città, un mulino che macina i suoi abitanti», oppure ancora «i miseri passatempi imposti dalla città: si possono trovare migliaia di persone che si divertono ad assistere a un combattimento di galli! Per non parlare di quei milioni che alle volte seguono ventidue individui che non fanno altro che muoversi senza senso dietro un piccolo sacco rotondo pieno di semplice aria». E scrive così pur avendo figli appassionati del «piccolo sacco rotondo». L’alienazione della persona che vive in città, la sua solitudine, sono materia di scritti e canzoni diffuse in occidente. E non va dimenticato che Gheddafi vive non gli antichi e storici processi di urbanizzazione, ma la corsa disperata alla città di persone che fuggono dalla campagna o fuggono dal loro paese. Le rivolte delle periferie di Parigi nel 2005 ci dicono, o dovrebbero dirci, molto sullo stato attuale delle nostre città. «La città è nemica dell’agricoltura... e attrae a sé i contadini lusingandoli, affinché lascino la loro attività per trasferirsi sui marciapiedi della città a fare i mendicanti...».
I due racconti successivi – Il villaggio e La terra sono un seguito, in positivo, a quello sulla città. Ma, stiamo attenti, non si tratta di una esaltazione semplicistica e nostalgica della vita di campagna, del villaggio dove c’è comunicazione e solidarietà, dove nessuno rivendica la privacy cittadina che, per un verso è la difesa necessaria nella città competitiva, ma per l’altro è l’esaltazione acritica dell’isolamento di ciascuno. La privacy, la sua rivendicazione è la conferma della critica alla città. E, sulla terra, la prosa del leader è lirica: «Non caricatene il dorso di pesi, non pavimentate le costole di pietra o di argilla... alleggerite le vecchie spalle da quanto vi hanno gettato gli irriverenti».
Il suicidio dell’astronauta è, a mio parere, un capolavoro di arguzia e ironia. Per un verso ci dice che lo spazio è vuoto, non abitabile, non è una nuova frontiera per gli umani. Ma per l’altro ci dice come l’astronauta abbia ormai una nozione della terra extraterrena, inutile. Quando il contadino chiede all’astronauta che cosa sappia della terra, sulla quale pensa di farlo lavorare e l’astronauta sciorina tutte le sue conoscenze scientifiche, il contadino si addormenta, lo manda via, e l’astronauta si suicida. Insomma il famoso nostro progresso non è illimitato: l’illusione del progresso può stravolgere il nostro intelletto e, addirittura, indurci al suicidio. Ma questo non deve indurci a ritenere che egli sia contro il progresso: nel racconto su L’erba della debolezza e l’albero maledetto si dichiara assolutamente contrario agli imbrogli dei «guaritori» e del tutto a favore della industria farmaceutica: «In realtà – scrive ironicamente – non abbiamo necessità di una casa farmaceutica sita ad al Rabta o a ra’s Lanuf dato che al-Hajj Hasan (il fattucchiero guaritore con la sua erba, ndr.) ha raccolto per noi tutte le erbe che curano qualsiasi malattia, anche i morbi della mente, del cuore e della percezione... della vertebra e della dignità» 10.
Fuga all’inferno, il racconto che dà il titolo alla raccolta, è vero e drammatico, fa pensare a Rimbaud – e non solo per «una stagione all’inferno» – che è uno dei poeti più straordinari del nostro tempo. Il vero inferno è qui, sulla terra, dove anche chi ha il potere deve temere ogni giorno il potere della maggioranza: solo all’inferno, quello vero, forse, si potrà riposare. «Dal punto di vista umano non c’è niente di peggio della tirannia di una moltitudine»: lo scrive Gheddafi e non Tocqueville. E Gheddafi continua: «Così io amo le masse e le temo proprio come amo e temo il mio stesso padre. Nel momento della gioga, di quanta devozione esse sono capaci! E come abbracciano alcuni dei loro figli!! Hanno sostenuto Annibale, Pericle, Savonarola, Danton, Robespierre, Mussolini, Nixon e quanta crudeltà poi hanno dimostrato nel momento dell’ira». Un giorno sugli altari, un giorno nella polvere, diceva Manzoni. C’è la lucida coscienza della drammaticità del potere e se un giorno (che non mi auguro) Gheddafi fosse travolto da una protesta popolare sono sicuro che non si stupirebbe. Il beduino del deserto sa più cose dell’intellettuale di città: sa che la politica non è solo, non può essere, calcolo politico dei politicanti, ma è fatta di passioni e pulsioni di massa, che difficilmente un regista politico può orientare. Fortunatamente il «1984» di Orwell, che in molti temevamo, non si è realizzato.
L’altro racconto, drammatico e di non semplice lettura è La morte, dove – a mio parere – non è tanto da capire se la morte sia maschio o femmina, ma come noi, che siamo tutti mortali, affrontiamo la morte e la accettiamo o la respingiamo. Il racconto è drammatico perché protagonista di questo appuntamento con la morte è il padre, eroico combattente, amato e temuto dal figlio Gheddafi. E anche per questo c’è il peso, il ricordo, la sofferenza nella lotta contro l’oppressione dell’Italia. Quel che mi pare si debba concludere dal racconto è che alla fine ci voglia un consenso alla morte (noi cristiani diremmo rassegnazione) e che fino a quando non c’è questo consenso la morte (per noi maschi) è maschio e quindi non dobbiamo cedere alla sua forza. Quando, anche per nostro indebolimento, ci rassegnamo, allora ci rappresentiamo la morte nel sembiante di donna. Ma questo mi pare consolatorio e un po’ maschilista. E mi scuso con l’autore per questa mia lettura.
Gli altri racconti, da Maledetta sia la famiglia di Giacobbe... e benedetta sii tu, carovana fino all’An¬nun¬ciatore del sahur di mezzogiorno sono molto coranici, e pertanto molto significativi. Siamo su un terreno coranico biblico e dobbiamo stare molto attenti alla lettura, al messaggio che Gheddafi vuole trasmettere, tanto più che questi scritti hanno un più esplicito contenuto politico. Secondo Pierre Salinger in essi più stretto è l’intreccio delle tre fondamentali ispirazioni dell’autore e cioè: letture coraniche, cultura occidentale e nasserismo e più evidente la polemica contro superstizioni e fondamentalismo.
Rompete il digiuno alla sua vista, si sofferma, e con polemica ironia, sulle conseguenze religiose della guerra del Golfo nel 1991 e in particolare della data della fine del digiuno per il Ramadan, decisa quell’anno dal generale Schwarzkopf, comandante delle truppe dell’alleanza occidentale di stanza in Arabia saudita. La preghiera dell’ultimo venerdì prosegue nella polemica contro le superstizioni inutili (se sia meglio mangiare con tre dita o con cinque) e le fumisterie teologiche e fondamentaliste, che porterebbero a negare la scuola, la ricerca scientifica, l’industria. Questi medesimi temi vengono sviluppati ancora negli ultimi due racconti È passato il venerdì senza preghiera e L’annunciatore del sahûr di mezzogiorno.

5. Ma andiamo alle conclusioni. Perché la manifestolibri, componente importante della famiglia del manifesto pubblica questa raccolta di racconti? Non è solo per sanare un colpevole ritardo della grande editoria e della politichetta italiana, ma perché il tentativo gheddafiano ci interessa molto e perché nel suo piccolo (la Libia non è una grande potenza) può essere, può diventare una grande e positiva novità nell’epoca della globalizzazione, che, peraltro, la Libia ha già conosciuto con i fenici e soprattutto con i romani, con Settimio Severo e Leptis Magna.
Il Libro verde e questi racconti ci dicono che ci può essere una innovazione culturale e politica che interessa tutti e che «il matto» – così molti hanno definito Gheddafi – è persona saggia e paziente (ha subito bombardamenti, embarghi, accuse di essere «stato canaglia» senza mai cadere nella provocazione). E di fronte a tutto questo ha tenuto ferme le sue posizioni. Oggi in Europa e in Italia si parla di crisi della democrazia rappresentativa e lui, con tutta la sua autorità, sostiene l’obiettivo di una democrazia diretta e, allo stesso modo, di fronte alle violenze e alle crisi dell’economia capitalistica, lui, libico, nato molto più a sud di Treviri, insiste nella proposta di socialismo. Gheddafi che non è mai voluto entrare nell’orbita sovietica, a differenza non solo di Castro, ma dello stesso Nasser, tuttavia nel suo saggio Il comunismo è veramente morto, dopo una denuncia degli errori e delle colpe del comunismo realizzato, scrive: «Ma noi non diciamo che il comunismo è morto e la ragione è semplice: il comunismo deve ancora nascere». Scrivere che il comunismo deve ancora nascere non è parola al vento.
E, per tutto questo, bisogna tener conto che Muhammar el Gheddafi non è un fiore nel deserto. È un libico e la Libia pur nel suo piccolo ha una storia: fenici, romani, turchi, italiani, teatro decisivo degli scontri della seconda guerra mondiale, governo britannico, monarchia, petrolio, scarsa popolazione, rivoluzione gheddafiana, centralità e sconfitte dell’unità araba, tentativi (difficili) di unità africana, crescita di una gioventù acculturata, intensificazione dei contatti internazionali (anche con le università Usa), centralità della questione ambientale, e, oso aggiungere, laicizzazione del Corano o, più cautamente, lettura non bigotta del Corano. Anche la questione ebraica e quella dello stato di Israele, rimossa o nascosta in molti stati arabi, in Libia è molto presente e viene affrontata in termini di dichiarata tolleranza per le persone di religione ebraica, di contrarietà alla formazione di due stati, ebraico e palestinese, per uno stato unico che garantisca i diritti di tutti i suoi cittadini. E in Libia la questione ebraica non è proprio leggera. Da ragazzo, a 14 anni, sono stato testimone del pogrom del 1945, di inaudita ferocia e vale ancora ricordare che fu il re Idriss a ordinare la cacciata della comunità ebraica, che in Libia aveva più di mille anni di storia. Oggi gli ebrei possono andare in Libia e li incontri nei ricevimenti delle ambasciate libiche.
L’edizione di questi racconti vuole (vorrebbe) essere un messaggio, un appello a intellettuali e politici ad avere più attenzione per la Libia, che non ha solo il petrolio. Occuparsi della Libia è anche occuparsi di noi.


NOTE

1 ERIC SALERNO, Genocidio in Libia. Le atrocità nascoste dell’avventura coloniale italiana (1911-1931), Manifestolibri 2005; ANGELO DEL BOCA, Gli italiani in Libia. Dal fascismo a Gheddafi. Laterza. Bari, 1991; SALVATORE BONO, Tripoli bel suol d’amore, Istituto Italiano per l’Africa e l’oriente, 2005.
2 DONATA PIZZI, Città metafisiche, Skira 2005.
3 Già nel dicembre del 1940 le truppe inglesi fanno prigionieri più di 120 mila militari italiani e occupano la Cirenaica fino alla Sirte e i poveri coloni ebbero i loro primi guai.
4 KADHAFI, Escapade en enfer et autres recits. Stanké 1998.
5 È la giornata del ’26, che ricorda insieme «il lutto» per i massacri compiuti dagli italiani conquistatori e «la vendetta», cioè la cacciata dalla Libia di tutti gli italiani.
6 Il 9 luglio del 1998 fu resa pubblica una dichiarazione congiunta dei governi libico e italiano, con la quale l’Italia riconosceva «le sofferenze arrecate al popolo libico» e si impegnava a indennizzare i danni. Era una dichiarazione di pacificazione, ma fino a oggi nessuno di quegli impegni è stato rispettato da parte italiana.
7 MUHAMMAR EL GHEDDAFI, Il Libro Verde. Prima parte: la soluzione del problema della democrazia, «il potere del popolo»; seconda parte, soluzione del problema economico, «il socialismo»; terza parte, base sociale della «terza teoria universale». Tripoli 1984. In una conversazione Giulio Andreotti mi disse di aver offerto il Libro Verde a Reagan, che però non gradì. Vale ricordare che nel 1986 Reagan ordinò il bombardamento della residenza di Gheddafi a Tripoli. L’edificio è stato conservato nello stato in cui era ridotto dopo il bombardamento.
8 ANGELO DEL BOCA, Gheddafi, una sfida dal deserto, Laterza, Bari. LUCIANA ANZALONE, Di fronte a Gheddafi. Arabafenice.
9 Pierre Salinger nella citata edizione canadese di Escapade en enfer.
10 È un gioco di parole poiché in arabo «dignità» (karâmah) e «vertebra» (karûmah) hanno un suono assai simile.


Fonte:http://www.manifestolibri.it/vedi_brano.php?id=375

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