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sabato 12 settembre 2015

Libia, la difficile gestione migratoria e il fallimento dell’Ue

Libia, la difficile gestione migratoria e il fallimento dell'Ue


06 - 09 - 2015Giuseppe Paccione
La pressione immigratoria, oggi, che parte dalle coste libiche e diretta verso quelle italiane, è incrementata, cagionando proteste più disparate, alcune di genere razzista, altre allarmistiche per la paura del diffondersi di malattie come, ad esempio, la scabbia. In questo bara dam, non passano sottobanco le soluzioni presentate, che vanno dal blocco navale sino all’uso della coercizione armata per attuare i respingimenti.

Per contrastare lo tsunami migratorio si pone in atto una ripartizione tra gli Stati membri dell’Unione europea (Ue), che viene solitamente respinta, senza curarsi di quanto determinato dalla Commissione Europea, come, ad esempio, la posizione del governo inglese che non è d’accordo per la distribuzione delle quote, minacciando la sospensione del Trattato Schengen. Si propone allora un piano B, non meglio identificato, o si augura l’intervento della comunitas gentium (comunità internazionale), considerata responsabile dell’intervento in Libia, come se il nostro Paese, pur di malavoglia, non fosse stato in prima linea nella cacciata di Gheddafi.
Su questo va fatta chiarezza. In primis, Il blocco navale non ha senso, sebbene sia una misura di guerra e costituisca una vera e propria aggressione, qualora non sia invocabile la legittima difesa. Il che non è fattibile, a meno che non si voglia classificare l’esodo migratorio dalla Libia come una forma di attacco armato. L’unico precedente, immediatamente smontato, fu la massa dei rifugiati provenienti dallo Stato del Bangladesh, invocato dall’India per intervenire in quel territorio, in illo tempore facente parte del Pakistan agli inizi degli anni settanta del secolo scorso.
Circa la solidarietà europea, in secundis, il governo italiano farebbe meglio a menzionare agli altri Stati membri dell’UE il regolamento 656/2014, in materia di gestione delle frontiere marittime, che statuisce in modo netto che le politiche dell’immigrazione e dell’asilo dovrebbero essere governate dal principio di solidarietà e dall’equa ripartizione delle responsabilità tra gli Stati membri.
In tertiis, è d’uopo fare chiarezza sulla distinzione tra migranti per ragioni economiche e rifugiati, id est di individui che fuggono dallo Stato di residenza per paura che la loro vita o libertà siano minacciate a causa della razza, della religione, della nazionalità o appartenenza a un certo gruppo sociale o delle opinioni politiche. Come si vede una condizione sufficientemente limitata, che implica l’effettivo timore di un fumus persecutionis.
Il punto di domanda è: possono essere attuate misure di inibizione, cioè di respingimento delle piccole imbarcazioni in acque internazionali? Si pensi all’Australia e agli Stati Uniti, che sono vincolati, come gli Stati membri dell’Ue, dalla Convenzione del 1951 sui rifugiati, che rispondono affermativamente, giacché, secondo il loro punto di vista, tale Convenzione vincola al non respingimento – c.d. principio di non-refoulement – solo se il richiedente asilo si trova nel territorio dello Stato e non in mare aperto o in acque internazionali. La Corte Suprema australiana ha riaffermato questo principio nella sentenza del 28 gennaio 2015.
Questa interpretazione presta il fianco ad una serie di obiezioni dopo la ben nota sentenza Hirsi del 2012, di cui ho ampiamente trattato in un mio saggio pubblicato da poco sul sito: ww.diritto.it, dove la Corte EDU ha condannato l’Italia per aver ricondotto in Libia un gruppo di profughi somali ed eritrei, dopo aver prestato loro aiuto e fatti salire a bordo di una nave da guerra. È vero che si potrebbe impedire alle imbarcazioni gremite di migranti/profughi di proseguire ed obbligarle ad invertire la rotta, senza alcun contatto con la nave da guerra, ma questo modus operandi potrebbe porre in serio pericolo il barcone e cagionare la perdita di vite umane.
L’Ue, si rammenti, è vincolata dalle norme sull’asilo sia nel Trattato sul funzionamento dell’Ue (c.d. Trattato di Lisbona) sia nella Carta dei diritti fondamentali (c.d. Carta di Nizza), che peraltro non pongono nettamente la loro applicabilità in alto mare. Anche il già citato Regolamento 656/2014 impone il rispetto di tutta una serie di vincoli internazionali tra cui la salvaguardia della vita umana in mare e dello status di rifugiato, incluso il principio di non-refoulement. Tutti queste ragioni sconsigliano la trasformazione della missione Triton da una mera missione di sorveglianza in una missione di interdizione.
Per il momento le speranze rimangono appese alla missione EUNAVFORMED, adottata nell’ambito PESC deliberata con Decisione 2015/778 del Consiglio dell’Ue, che dovrebbe comportare una presenza (armata) sulle coste libiche – cfr. GUUE, L. 122/31, DECISIONE (PESC) 2015/778 del Consiglio, 18 maggio 2015, relativa ad un’operazione militare dell’Unione europea nel Mediterraneo centromeridionale (EUNAVFOR MED). Il pensiero va alla Missione Atlanta e dei successi conseguiti nella lotta alla pirateria, ma i nodi da risolvere nel caso libico sono molto più complessi, sebbene non si tratta solo di operare in mare.
Per ora è stata disegnata solo la fase A dell’operazione EUNAVFORMED, che stabilisce solamente la pianificazione, ma non le fasi B e C, le più impegnative, che dovrebbero comportare il sequestro dei natanti e lo smantellamento della rete dei trafficanti. Per rendere operativa la missione si aspetta l’imprimatur del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Occorrerà vederne il contenuto, sempre che sia effettivamente adottata e che qualche Stato membro permanente (vedi la Russia) non ponga ostacoli, attraverso il diritto di veto.
Ma è de iure possibile attuare la missione EUNAVFORMED, senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza?. La risposta non può essere che positiva, se c’è il consenso dell’avente diritto, cioè del Governo di Tobruk, quello riconosciuto dalla comunità internazionale. Obiettivi molto ambiziosi sono arduamente realizzabili. Ad esempio, per evitare di essere accusati di violare l’obbligo di non-refoulement, bisognerebbe istituire dei centri in Libia, dove fare lo screening dei richiedenti asilo e collocare in appositi campi profughi coloro che hanno diritto allo status di rifugiato, nel caso in cui non si voglia ospitarli negli Stati membri dell’UE. Ma un tale obiettivo diventa ingestibile in una situazione di caos e guerra civile, che rischierebbe di coinvolgere di nuovo gli europei dopo il passo falso del 2011.

Preso da: http://www.formiche.net/2015/09/06/immigrazione-europa-libia-diritto/

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