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giovedì 3 settembre 2015

Libia/migranti: Abidi, alla vigilia di un default. Un nuovo Iraq alle porte dell' Europa

di Fiorina Capozzi
Secondo l' esperto del mondo arabo di fronte alla minaccia il governo Renzi incapace di prendere una posizione coerente
(Il Ghirlandaio) Tripoli, 28 ago. Il tracollo finanziario della Libia è imminente. E il conto per l’Italia rischia di essere assai salato. Tripoli è da sempre un importante partner commerciale per Roma e un suo eventuale fallimento avrebbe un impatto pesante sull’economia italiana. Nonostante l’importanza del dossier libico, fuori dai confini nazionali c’è l’impressione che il governo Renzi sia incapace di prendere una posizione coerente nei confronti della grave crisi di Tripoli. Persino la possibilità di un intervento europeo sotto la guida italiana appare un’ipotesi assai remota mentre in Libia si consuma un dramma umanitario di cui gli sbarchi dei migranti sono per noi l’espressione più vicina e tangibile.

E’ questo lo scenario delineato da uno dei massimi esperti del mondo arabo, il professor Hasni Abidi, intellettuale di origini algerine che insegna all’Istituto europeo di Ginevra, dirige il Centre d’études et de recherche sur le monde arabe et la méditerranée, e ha appena pubblicato il libro "Monde arabe: entre transition et implosion” (Il mondo arabo: tra transizione e implosione, Ed. Erick Bonnier). Nell’intervista rilasciata a ilghirlandaio.com, Abidi parla senza mezzi termini di “un nuovo Iraq, geograficamente molto piu’ vicino all’Europa” capace di far tremare Roma, Francoforte e Parigi.

Professore, che cosa sta accadendo in Libia? C’è ancora speranza per un esito positivo della mediazione Onu portata avanti dall’ inviato speciale Bernardino León?
Siamo in una fase di stallo politico e istituzionale con la commissione incaricata di redigere la costituzione che non funziona. Finora tutti gli attori in campo all’interno del Paese hanno miseramente fallito nella gestione del dopo Gheddafi spingendo la Libia nel caos. In più si sono aggiunti due nuovi elementi: il Paese, finora prospero, rischia il tracollo finanziario ed è entrato in gioco anche Daesh (lo Stato Islamico, ndr). Come se non bastasse, la parte più militarizzata del paese, dagli islamisti ai rivoluzionari fino agli ex uomini di Gheddafi, ha molto più potere degli attori politici con cui discute l’inviato León. Ed è questa la difficoltà di fondo della via diplomatica che stenta a far mantenere internamente gli impegni presi.

Quali sono le posizioni dei diversi attori internazionali in gioco sul tema dell’intervento militare?
L’Egitto e la Francia spingono per passare all’azione. Parigi sta anche facendo enormi pressioni sull’Algeria che, al pari di Tunisia e Stati Uniti, si oppone all’uso della forza. Nel dettaglio, Parigi e il Cairo chiedono alla Lega araba di dare legittimità ad un intervento militare sotto forma di sostegno aereo contro lo Stato islamico. Intascato l’avallo della Lega araba, puntano poi a convincere gli Stati europei, gli americani e soprattutto il Consiglio di sicurezza a votare un’altra risoluzione che passa per la vendita di armi. Gli egiziani infine vorrebbero non solo ottenere nuove armi, ma portare a casa anche il sostegno aereo per il governo di Tobrouk all’interno di un piano avallato anche dai russi. I sostenitori della via diplomatica (Algeria, Tunisia e Stati Uniti, ndr) ritengono invece che bisogna dare una chance a León e soprattutto al governo di Tripoli. Anche perché per giustificare un intervento militare, c’è bisogno della legittimazione di un governo. Senza contare che l’Onu non può da un lato sostenere una missione diplomatica e dall’altro montare una risoluzione del Consiglio di sicurezza senza un consensus diffuso sul caso libico.

L’Italia vuole avere un suo ruolo nel processo di stabilizzazione della Libia. Qual è il suo parere sulla strategia di Roma?
L’Italia è un vecchio colonizzatore che dovrebbe conoscere meglio di chiunque altro la Libia. Tuttavia le posizioni di Roma hanno mostrato che il governo italiano non ha capito nulla di quello che sta accadendo a Tripoli. Inizialmente l’Italia ha trascurato la gestione del post-Gheddafi. Poi si è resa conto che la Libia è una questione di primo piano per la sicurezza nazionale. Quando il governo italiano ha preso coscienza della strategicità del dossier libico, era ormai troppo tardi per correre ai ripari. Insomma, Roma non ha avuto alcuna coerenza nella gestione della crisi. Ora la proposta di un intervento capitanato dall’Italia è l’ultimo colpo di scena che nessuno si attendeva e che a Tripoli è stato vissuto male.

All’estero c’è quindi la sensazione che l’Italia non abbia le idee chiare sul da farsi?
Sin dal primo intervento militare, l’Italia è stata vittima di una miopia politica, di dissidi interni sul dossier libico. Ancora oggi c’è il ministro degli affari esteri che dice una cosa diversa da quello della difesa. Roma ha prima proposto un intervento militare. Poi ha cambiato idea dicendo di essere favorevole al processo diplomatico e tentando di coinvolgere anche Algeri. In questa fase, mi pare che l’Italia si stia schierando a favore della posizione della Lega Araba, che non interverrà direttamente, ma preme per ottenere un sostegno aereo dalla comunità internazionale al fine di bloccare l’avanzamento dello stato islamico. Ma onestamente c’è una certa difficoltà a comprendere quale sia realmente la posizione dell’Italia che rischia di essere la prima vittima europea della crisi libica per via della vicinanza geografica, dei legami storici e dei rapporti geo-economici.

Prima lei faceva riferimento all’ipotesi di un intervento aereo. Crede sia auspicabile per bloccare l’avanzata dell’Isis?
Diversi paesi si chiedono come possa un attacco aereo fare la differenza sul terreno fra i membri dello Stato islamico e gli altri gruppi presenti nel Paese. L’osservazione mi sembra pertinente. Sono convinto infatti che un attacco aereo finirebbe solo col complicare ulteriormente la situazione. Tanto più che non è possibile immaginare un’operazione senza l’avallo o l’accordo di chi controlla il territorio. Anche se sono islamisti. Altrimenti l’intervento verrebbe percepito solo come una posizione europea e occidentale a favore di un governo riconosciuto dalla comunità internazionale.

Come valuta, invece, l’ipotesi di un’operazione marittima europea, sotto il cappello Onu, finalizzata a stroncare gli introiti finanziari degli scafisti e a contenere il flusso dei migranti?
E’ difficile immaginare che le cose possano cambiare sul fronte migranti finché in Libia non ci sarà un governo che controlla il territorio e la fascia costiera. D’altro canto mi sembra evidente che immigrazione e stato islamico sono diventate le due priorità della comunità internazionale. Le questioni sono però intimamente correlate al tema della stabilizzazione del Paese in un contesto delicato in cui si sono registrati contrasti anche fra l’Algeria e la Tunisia che ha appena autorizzato gli Stati Uniti a costruire una base militare ed un centro per le intercettazioni sul suo suolo.

Chi ha le maggiori responsabilità dello stallo della crisi libica?
Oggi la Libia è vittima dell’influenza di attori regionali e internazionali che dovrebbero smetterla di ingerire negli affari di Tripoli. Anche l’Europa ha responsabilità importanti: finora nessun grande capo di Stato europeo ha ricevuto León né gli ha offerto un sostegno forte. Ciò significa che non c’è un grande entusiasmo nel sostenere la dinamica diplomatica del Paese. Ma la comunità internazionale deve tenere ben presente che un intervento militare in Libia, senza l’accordo delle forze nazionali, rischia di essere un grande fallimento. Penso soprattutto alle conseguenze sotto il profilo umanitario: l’opposizione islamista si radicalizzerà, lo Stato islamico avrà un nuovo argomento e l’esodo della popolazione avrà delle conseguenze rilevanti per tutti i paesi confinanti.

Il fallimento della mediazione politica in Libia rischia quindi di rallentare la crescita dei Paesi del Mediterraneo…
Certamente. L’effetto è già visibile oggi in Tunisia: lo Stato vive sostanzialmente di turismo ed è costretto a fare i conti con un crollo delle attività. Senza contare l’impatto dei flussi migratori sia sui Paesi arabi che su quelli europei. La comunità internazionale ha fatto un grave errore destabilizzando tempo fa il Paese. Ora la Libia è un vero buco nero.

C’è ancora una speranza per risolvere pacificamente il caso libico?
Al momento si cerca una soluzione, ma oggi non si può nemmeno essere certi del fatto che in futuro la Libia esisterà ancora. Potrebbero magari nascere altri due o tre Stati. Di sicuro, in questa gravissima crisi, la comunità internazionale non fa abbastanza per sostenere la dinamica del Paese. Il Consiglio di sicurezza dovrebbe essere più incisivo deferendo coloro che non rispettano il piano di pace alla giustizia internazionale: in Libia ci sono molte armi in circolazione e gli europei e gli americani sanno bene chi sono oggi i signori della guerra. Inoltre, è fondamentale che i Paesi limitrofi, primi fra tutti Egitto e Algeria, si mettano d’accordo. Ma soprattutto è essenziale che Francia, Italia, Gran Bretagna e Stati Uniti si rendano conto della necessità di imporre e difendere un piano di pace come, del resto, è già accaduto altrove in passato. Solo così sarà possibile gestire al meglio una crisi libica che già dura da troppo tempo.

Preso da: http://www.ilghirlandaio.com/copertine/132088/libia-migranti-abidi-alla-vigilia-di-un-default-un-nuovo-iraq-alle-porte-dell-europa/

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