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sabato 8 ottobre 2016

Libia, civili intrappolati a Bengasi, ma non era Gheddafi il " cattivo" ?

1 ottobre 2016
A 5 anni dall' invasione della Libia, con la scusa di proteggere i civili di Bengasi, minacciati da Gheddafi, adesso i civili sono a rischio della vita proprio a Bengasi, fonti locali dicono che non solo le truppe di Haftar impediscono ai civili di fuggire, ma anche navi straniere sono presenti di fronte a Bengasi, probabilmente francrsi, ed impediscono la fuga via mare, ma questo i media non lo dicono.

Centinaia di persone prigioniere dei combattimenti tra l'esercito nazionale libico e i rivoluzionari nel quartiere Ganfuda. Le testimonianze raccolte dall'organizzazione umanitaria: "Senza cibo né medicine né corrente elettrica: viviamo nel terrore".

ROMA. "Gli abitanti di Ganfuda rischiano di morire intrappolati nei combattimenti: sopravvivono nutrendosi di cibo guasto e acqua sporca, mentre le bombe continuano a cadere incessantemente. Per gli ammalati e i feriti si stanno esaurendo anche le scorte di medicinali già scaduti". Le parole di Magdalena Mughrabi, vicedirettrice del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International, fanno luce sulla drammatica situazione vissuta da centinaia di persone a Bengasi, costrette prigioniere nelle proprie case dopo mesi di blocco militare.

Le testimonianze: strade bloccate, scorte di cibo esaurite. Preziose e inquietanti le testimonianze raccolte dall'organizzazione umanitaria fra le 130 famiglie libiche e i centinaia di stranieri intrappolati da mesi nella zona sud-occidentale della città, il quartiere di Ganfuda, appunto, vittime di combattimenti sempre più intensi: strade d'accesso bloccate dalle forze dell'esercito nazionale, forniture di alimenti, acqua ed energia elettrica interrotte. "I bambini sono pelle e ossa, il cibo scarseggia e quello che c'è è inadeguato. Se solo potessero fargli arrivare qualcosa da mangiare o portarli via da qui... In cambio, accetterei di restare in questo quartiere per il resto della mia vita", racconta commosso Mohamed, un residente di Ganfuda. "Le scorte di olio, riso e farina sono terminate e la mancanza di combustibile per cucinare costringe a cuocere i cibi in una carriola riempita di carbone. Ho un problema ai reni ma le medicine sono finite". Nonostante la drammatica situazione, l'uomo ha preso con sé otto famiglie in fuga dai combattimenti, e attualmente nella sua abitazione vivono circa 45 persone, di cui 23 bambini. "Tra noi non ci sono combattenti, siamo dei comuni cittadini. È come stare in prigione", spiega. I bombardamenti, conclude, sono sistematici e indiscriminati e l'interruzione della corrente elettrica, croce che dura ormai da due anni, costringe le persone a rimanere strette e immobili durante la notte.

Tanti bambini senza acqua né medicine. "Non vogliamo nient'altro che un modo sicuro per andare via. Ho due figli di tre anni e mezzo e due anni. Non c'è latte né cibo per loro. Devo riempire delle bottiglie d'acqua e fargli credere che sia latte", racconta un altro testimone, "Waleed" (il nome è stato cambiato per proteggere la sua identità). "Gli aerei pattugliano il cielo e la gente ha paura persino di uscire di casa perché quelli, non appena vedono movimenti, colpiscono. Pochi mesi fa hanno colpito persino una moschea", aggiunge "Hassan" (altro nome di fantasia). "I bombardamenti sono costanti, non usciamo di casa per niente", racconta "Khadija", quatto figli di cui l'ultimo partorito in casa 10 mesi fa. "Non ho latte in polvere né medicine e la mancanza di acqua potabile è un altro grave problema", aggiunge la donna. "Viviamo come animali", conclude "Samir", un ex agente della polizia giudiziaria che vive a Ganfuda con la moglie, tre figli e una figlioletta di un anno. Dopo aver accolto tre famiglie scampate al conflitto, nella sua casa vivono attualmente 24 persone, di cui 14 sono bambini. La mancanza di linea telefonica in buona parte di Ganfouda rende difficili i contatti col mondo esterno, col risultato che anche provare a contattare i parenti - per sapere se sono vivi o meno - è ormai un'impresa impossibile.

Attacchi basati sulla provenienza o sull'affiliazione politica. Nell'ultima settimana i raid aerei e i colpi di artiglieria sono aumentati moltissimo. "Con l'intensificarsi degli attacchi e i combattimenti sempre più vicini, molti abitanti di Ganfouda hanno paura di lasciare le case. Sollecitiamo tutte le parti in conflitto a rispettare il diritto internazionale umanitario e a consentire l'ingresso, senza restrizioni dei soccorsi umanitari. Coloro che vogliono lasciare la zona devono essere protetti da minacce basate sulla provenienza o su una presunta affiliazione al Csrb", continua Mughrabi. Paura, quest'ultima, sempre più diffusa tra i civili, specialmente da quando un leader tribale che collabora all'Operazione dignità ha affermato, a fine agosto, che a chiunque abbia più di 14 anni sarà impedito uscire vivo dal quartiere.  "Tutte le parti in conflitto dovrebbero facilitare l'ingresso degli aiuti e garantire un percorso di uscita sicuro a chi vuole lasciare la zona. I civili non dovrebbero mai essere usati come scudi umani e coloro che vogliono abbandonare Ganfuda dovrebbero essere protetti dagli arresti arbitrari, dalla tortura e da ulteriori violazioni dei diritti umani", conclude Mughrabi.

Il conflitto Haftar-Csrb che ha messo in ginocchio Bengasi. Come ha fatto la situazione ad arrivare a questo punto? Il clima si inasprisce intorno alla metà del 2014, quando l'ex generale Khalifa Haftar lancia l'offensiva militare "Operazione dignità" contro le milizie e i gruppi armati islamisti di Bengasi, che in seguito formano una coalizione denominata "Consiglio della shura dei rivoluzionari di Bengasi" (Csrb). Durante i combattimenti, entrambe le parti commettono gravi violazioni del diritto internazionale umanitario, in alcuni casi equivalenti a crimini di guerra. A distanza di due anni, l'esercito nazionale libico, sotto il comando di Haftar, continua a colpire dall'alto le zone di Bengasi sotto il controllo del Csrb, concentrandosi in particolare su Ganfuda, e mettendo in pericolo la vita dei civili, impossibilitati a entrare e uscire ed esposti, quindi, agli attacchi aerei.

Distinguere tra obiettivi militari e obiettivi civili. Dunque non c'è tempo da perdere: l'unico modo per dare una svolta alla situazione è che ognuna delle parti in conflitto prenda tutte le misure possibili per proteggere le vite dei civili intrappolati nei combattimenti, sia qui che in altre parti della Libia. Gli attacchi indiscriminati o sproporzionati sono vietati dal diritto internazionale e chi prende parte al conflitto deve fare il massimo sforzo per distinguere tra obiettivi militari e obiettivi civili, come le case e gli edifici. Armi esplosive imprecise come l'artiglieria non dovrebbero mai essere impiegate nelle vicinanze di aree ad alta densità abitativa, ricorda Amnesty International. Una disposizione quasi mai rispettata, in tempi di guerra.
 

Con informazioni da: http://www.repubblica.it/solidarieta/emergenza/2016/10/01/news/libia_amnesty_bengasi_civili_intrappolati_in_condizioni_disperate-148891560/ 

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